Nelle ultime settimane si sono accesi i riflettori su una questione che interessa particolarmente il nostro Paese, l’attività di alcune stazioni di polizia cinese istituite in 53 Paesi che, ufficialmente, assistono i propri connazionali residenti all’estero nelle macchinose procedure burocratiche. A seguito dell’ultimo report rilasciato dalla Ong spagnola Safeguard Defenders, l’opinione pubblica è venuta a conoscenza delle nefandezze che si celano dietro queste attività ed ha esercitato pressione sui propri governi al fine di normalizzare tale situazione. La fondazione di questi uffici è dovuta ad accordi istituzionali con i paesi ospitanti, ma talvolta essi potrebbero insediarsi illegalmente, senza che i governi centrali ne siano a conoscenza. Pechino smentisce prontamente le accuse indicando la bufera come il frutto di un disdicevole malinteso.
La Ong spagnola evidenzia l’espansione di questo sistema che al giorno d’oggi conta 102 strutture in tutto il mondo, delle quali 48 venute a galla solo nell’ultimo rapporto (“Patrol & Persuade”). Le stazioni di polizia non si limitano ad attività d’assistenza ma sfociano, sempre secondo quanto riportato nel documento, in molestie, minacce ed intimidazioni, al fine di ottenere il ritorno in patria di obiettivi sensibili. L’operazione condotta dal Ministero della Pubblica Sicurezza prende il nome di Fox Hunt ed ha raggiunto “ottimi” risultati: dal 2014 Safeguard Defenders stima un rimpatrio di oltre 11.000 persone. Inoltre viene eseguita una raccolta di informazioni e dati sensibili ai danni dei propri connazionali per comprendere l’opinione pubblica ed esercitare influenza politica.
Com’è la situazione in Italia?
Il Belpaese presenta un’elevata densità di uffici di polizia cinese, ne detiene infatti il record mondiale a quota 11, di cui solo 4 localizzate: Prato, Firenze, Milano e Roma. Possiede inoltre il primato di aver consentito la fondazione di centri definiti “progetti pilota”, destinati ad un’utilizzo sperimentale che, a seguito di riscontri estremamente positivi, ha spinto le autorità cinesi ad estendere la prassi in tutto il continente europeo.
I primi accordi tra Italia e Cina risalgono al 27 Aprile 2015 quando a Pechino l’allora Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni ed il suo omologo cinese Wang Yi firmarono un memorandum d’intesa per l’esecuzione di pattugliamenti congiunti e collaborazione nel contrasto a terrorismo, criminalità organizzata internazionale, traffico di migranti e tratta di esseri umani. Il 24 Settembre dello stesso anno, all’Aia (Paesi Bassi), viene siglato un secondo accordo relativo a pattugliamenti congiunti in aree di interesse turistico. A seguito di un responso estremamente positivo di tali intese, il 24 Luglio 2017, si è proceduto con la stipula di un nuovo protocollo che prevedesse il rafforzamento della collaborazione sinoitaliana in materia di sicurezza.
La presenza sul suolo italiano di forze di polizia estera che possano interferire in questioni delicate (raccolta dati sensibili, minacce, intimidazioni, ecc.), desta preoccupazione non solo tra la cittadinanza ma anche tra le fila dei suoi rappresentanti. Sia l’opposizione (Lia Quartapelle, Partito Democratico) che la maggioranza (Mara Bizzotto, Lega) hanno depositato un’interrogazione parlamentare indirizzata al ministro dell’Interno, per far luce sulla spinosa questione diplomatica.
Il caso della stazione di Prato
La provincia toscana ospita la seconda più grande comunità cinese della penisola e, facendo riferimento a quanto affermato dal Foglio, vi sorgerebbe una stazione di polizia cinese priva di notifica presso le nostre autorità. Il quotidiano si è impegnato nell’avvisare prontamente le forze di polizia, le quali non hanno dimostrato la minima apprensione, in quanto il centro sarebbe preposto unicamente alla gestione di “pratiche amministrative e non di pubblica sicurezza”.
La reazione del Parlamento Europeo
L’8 Giugno scorso il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione urgente in materia di diritti umani come conseguenza alla pubblicazione dei Xinjiang Police Files, documenti che condannavano le atrocità commesse nei confronti della comunità uigura. In questa occasione il parlamento ha ribadito con veemenza l’importanza di eliminare le interferenze cinesi e rivedere, nel caso dell’Italia, gli accordi del 2015 e del 2017.
La risposta del dragone
Il portavoce degli Affari Esteri cinesi, Wang Wenbin, ha prontamente respinto le accuse, dichiarando che questi centri siano semplicemente degli uffici posti al servizio dei cittadini cinesi all’estero, con l’obiettivo di assisterli nelle contorte procedure burocratiche. I mezzi a disposizione nel ventunesimo secolo permettono una rapida diffusione di informazioni, le quali spesso possono essere mal interpretate. Si deve però ammettere che tali metodologie non sono estrane al regime di Xi Jinping e risulta complicato credere alla versione di Pechino. L’opinione pubblica si è mossa compatta contro l’istituzione di questi uffici di polizia cinese e l’abolizione di quelli già in attività, sarà quindi doveroso procedere con cautele ad indagini che mirino a fare chiarezza sulla realtà dei fatti.
Ultima Modifica: 25 Gennaio 2023