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Da guerra nasce guerra? Ucraina e Medio Oriente come vasi comunicanti

Da guerra nasce guerra? Ucraina e Medio Oriente come vasi comunicanti

Dall’inizio dello scorso anno il sostegno occidentale all’Ucraina è cresciuto costantemente, al punto da raggiungere circa 100 miliardi complessivi già a novembre (secondo Statista) tra aiuti finanziari, umanitari e militari. Recentemente, tuttavia, il tema del tracciamento degli aiuti è stato portato al centro del dibattito, per i più svariati e interessati motivi, da diverse parti coinvolte, nonché dalle Nazioni Unite.

La questione può avere ripercussioni al di là dei confini ucraini e, in particolare, investire il Medio Oriente con effetti destabilizzanti di vario genere.

Il dibattito

I russi hanno ripetutamente sottoposto la questione all’attenzione delle Nazioni Unite, sostenendo che il massiccio flusso di armi e denaro dai Paesi occidentali verso l’Ucraina costituisse un notevole rischio per la stabilità internazionale, in particolare per quanto riguarda l’area mediorientale. La vasta disponibilità di queste risorse, opportunamente sottratte al loro scopo designato e dirottate sul mercato nero, potrebbe – stando a quanto affermano i russi – consentire ad attori non statali (terroristi, ribelli ecc.) di acquisire importanti capacità militari, con conseguenti effetti destabilizzanti per l’ordine internazionale.

Questa posizione, seppure esprima una preoccupazione che sarebbe in linea di principio legittima, ha l’evidente fine di indebolire il sostegno all’Ucraina sia sul piano pratico che su quello morale. In ogni caso, all’ONU la Russia non è così isolata come si potrebbe pensare, dal momento che molti Paesi non si possono permettere di compromettere le loro relazioni con essa: è questo il caso di diversi stati mediorientali, africani e asiatici che si sono rifugiati nell’astensione sulle risoluzioni di condanna all’aggressione russa del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale.

Per quanto riguarda i paesi occidentali, gli americani sono stati tra i primi ad esprimere perplessità a riguardo, con i repubblicani che prima delle elezioni di midterm minacciavano di porre fine alla logica degli “assegni in bianco” a Kiev, promettendo una gestione più oculata del budget destinato al sostegno dell’Ucraina. Allo stesso tempo, ufficiali statunitensi hanno spiegato quanto sia una sfida molto impegnativa tracciare questi aiuti una volta che essi entrano in territorio ucraino, per le difficoltà di contattare direttamente i destinatari, i rischi nel dislocare personale che possa effettuare controlli e il generale disordine burocratico e amministrativo che caratterizza uno stato in guerra.

A dicembre, anche il premier britannico Rishi Sunak ha sollevato la questione chiedendo una verifica interna della tipologia ed entità degli aiuti forniti dal proprio Paese – insomma, come la Gran Bretagna stesse spendendo i propri soldi –, presentandola come necessità di un efficentamento degli aiuti. Questa mossa è stata letta, invece, da alcune voci critiche come un tentativo di rivederli al ribasso o quantomeno di imbrigliarli in una logica di risparmio, giudicata dalle stesse fonti poco applicabile a una situazione di guerra che richiede che sia messo a disposizione tutto ciò che serve, senza remore.

Prendendo atto della volontà di alcuni paesi membri del Consiglio di Sicurezza di continuare a fornire assistenza militare all’Ucraina, un funzionario delle Nazioni Unite ha esortato nella riunione del 9 dicembre questi paesi a prendere misure concrete per assicurarsi che le armi non finiscano nelle mani sbagliate. Il dibattito si è poi sviluppato attorno alle citate posizioni russe e occidentali, con un reciproco scambio di accuse sulle responsabilità della guerra.

Il rischio della proliferazione delle armi

Cercheremo qui di chiarire quali siano i potenziali rischi di una proliferazione delle armi e quanto questi rischi possano collegarsi al conflitto russo-ucraino.

Partiamo dalla considerazione che non tutte le armi sono uguali: alcune, complesse e costose da progettare e manutenere, sono appannaggio di forze armate ben organizzate, solitamente forze nazionali; altre, più elementari nelle componenti e nell’utilizzo, possono essere facilmente oggetto di contrabbando e dotare di potenziale offensivo una più vasta platea di utilizzatori, dal miliziano dell’ISIS al comune criminale. Questo non significa che forze irregolari non possano ottenere hardware militare di grande complessità, quanto piuttosto che è difficile che possano usarlo adeguatamente. Abbiamo visto negli anni recenti, e in particolare dal 2015 in poi, come l’ISIS si sia dotato di una vasta gamma di armamenti che va dai droni commerciali che si possono trovare nei comuni negozi, alle mitragliatrici, fino addirittura ai carri armati. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile successo nel trasformarsi da attore non statale in qualcosa di molto simile a uno stato vero e proprio, persino lo Stato Islamico ha dimostrato grosse difficoltà nell’utilizzare i carri armati, dal momento che non disponeva delle capacità tecniche, delle munizioni e dell’addestramento necessari e rendere questi mezzi qualcosa di più di un armamento e una corazza.

Tutt’altro discorso va fatto per quanto riguarda i lanciarazzi spalleggiabili forniti in grande quantità a Kiev e più in generale le cosiddette SALW (Small Arms and Light Weapons), tra cui figurano mitragliatrici leggere, medie e pesanti, fucili d’assalto e pistole così come mortai, lanciagranate e armi anti-carro e contraeree, tutte al di sotto dei 100 mm di calibro.

Questo tipo di armi necessita in media di un addestramento molto semplice che per alcune può durare addirittura solo qualche ora, oltre a una manutenzione elementare. Inoltre, per via delle ridotte dimensioni, sono facili da trasportare, stoccare e per questo motivo anche da occultare e commerciare illegalmente. Il fatto che questo tipo di armi si presti all’utilizzo anche di gruppi meno organizzati e fuori da contesti bellici – se pensiamo alla criminalità organizzata, per esempio – fa sì che la domanda sia sempre alta il che, unito alla scarsa tracciabilità, la rende una minaccia locale in grado di trasformarsi rapidamente in una globale.

Una maggiore e più variegata offerta di armi sul mercato nero non rende solo più facile per un acquirente reperire un’arma. Difatti, se consideriamo che una parte rilevante del commercio di piccole armi, secondo il rapporto ONU del 2020, riguarda non armi intere bensì componenti la cui vendita può essere legale in un paese e illegale in un altro, si può facilmente intuire come un aumento esponenziale della disponibilità sul mercato di talune armi possa rendere molto difficoltosi i controlli, come conseguenza dell’elevato numero in circolazione nello stesso momento e delle zone grigie dal punto di vista legislativo.

Il problema di fondo nel controllare questi aiuti è certamente collegato allo stato di guerra in cui si trova l’Ucraina, ma la situazione potrebbe essere significativamente aggravata da caratteristiche proprie del Paese e slegate dalle condizioni odierne. Sappiamo, infatti, che il commercio illegale di armi non è un problema nuovo per l’Ucraina e che tale pratica era fiorente anche prima dell’invasione russa e legata, come nel resto dell’ex blocco sovietico, alla presenza di grossi depositi di armi convenzionali non più utilizzate dalle forze armate, spesso poco custoditi. Inoltre Jonas Ohman, fondatore e CEO di Blue-Yellow, una ONG lituana che ha fornito equipaggiamento non letale a Kiev fin dall’inizio degli scontri con i separatisti nel 2014, ha sostenuto che allo scorso aprile solo il 30-40% del materiale che veniva spedito attraverso il confine raggiungeva la sua destinazione, rivedendo significativamente questa stima al rialzo nei mesi successivi.

In ultimo, l’economia stessa di una missione militare differisce profondamente da quella propria di una famiglia o di un’azienda: l’obiettivo del militare è quello di raggiungere l’obiettivo prefissato, non di risparmiare. La logica militare prevede di avere uno o più piani di riserva per i quali tutto l’occorrente deve essere pronto all’uso, motivo per il quale i contratti siglati devono essere in qualche modo “in eccesso”. Questo fatto non è certo d’aiuto nel contenere i fenomeni di corruzione, dato che spesso essi si presentano sotto forma di acquisti superiori alle necessità, nel prezzo e nella quantità acquistata. I recenti casi di cronaca sulla corruzione di alti funzionari in ucraina ne sono una conferma.

La possibile destabilizzazione del Medio Oriente derivante da un indebolimento della Russia

Un’ulteriore fonte di instabilità per il Medio Oriente potrebbe derivare da una diminuita capacità di penetrazione russa nelle dinamiche di potere regionali. Il Paese, che è in buoni rapporti con la maggior parte dei paesi mediorientali, riveste attualmente un ruolo cardine nel mantenere un equilibrio anche per quanto riguarda il conflitto in Siria. Qualora la Russia dovesse trovarsi in una posizione di dipendenza dall’Iran a causa delle esigenze legate alla guerra in Ucraina (della necessità di ricevere droni e missili balistici, in particolare), i Paesi dell’area non potrebbero contare su una limitazione da parte russa delle mire ostili dell’Iran nei loro confronti. Ma anche su un piano più generale, il rischio è che i vari stati del Medio Oriente, persi i forti legami con Mosca e senza la prospettiva di una maggiore penetrazione occidentale nella regione, agiscano più individualmente sul piano della politica estera, con il risultato di aumentare il livello di conflittualità e innescare (o re-innescare) crisi.

Il piano degli USA

Lo scorso Ottobre, l’amministrazione Biden ha annunciato un piano per contrastare il rischio della dispersione e del traffico di armi, qualcosa che va oltre i consueti strumenti usati dagli Stati Uniti per controllare che le armi esportate rimangano nelle mani dell’utilizzatore finale designato, in quanto questi strumenti sono risultati insufficienti in un contesto in cui le armi vengono rapidamente e continuamente spostate, utilizzate, distrutte.

Il nuovo piano tiene conto della particolare realtà ucraina e prevede, oltre a diversi dettagli secretati, un addestramento specifico delle autorità di pubblica sicurezza e di frontiera sia ucraine che degli alleati confinanti, oltre a una maggiore cooperazione con questi ultimi nella gestione e controllo dei confini. I ricercatori dello Stimson, ad ogni modo, evidenziano alcuni punti deboli di questo piano sottilineando come, in assenza di misure analoghe adottate dai paesi europei che esportano armi nel Paese, ci siano troppe falle che possono rivelarsi straordinariamente utili a gruppi criminali e altri attori non statali.

Una soluzione, quella statunitense, che appare ancora parziale e i cui effetti si potranno giudicare solo nei prossimi mesi ma il cui vero banco di prova non sarà tanto il conflitto attualmente in corso, quanto piuttosto la pace: sarà, infatti, un compito molto delicato e importante evitare che la fine delle ostilità costituisca un “liberi tutti” per le armi circolanti nel Paese a quella data.

Un dilemma occidentale

La panoramica qui fatta permette di notare una cosa: la mancanza di tracciamento delle armi rischia di minare la sostenibilità del sistema di sostegno occidentale all’Ucraina, sottoponendo a uno stress maggiore del dovuto le scorte e le filiere produttive dei Paesi che forniscono le armi, diminuendo l’efficacia e la certezza degli approvvigionamenti e rischiando di alimentare crisi in altre parti del mondo che potrebbero drenare ulteriori risorse.

La domanda non è più, quindi, se un tracciamento efficace sia necessario, quanto piuttosto se i paesi occidentali avranno lo spazio di manovra politico per occuparsene a fondo. D’altronde, chiedere maggiore trasparenza a Kiev rischia di mettere in cattiva luce le autorità ucraine, motivo probabilmente alla base dell’atteggiamento cauto occidentale sulla questione, che si cerca di porre il meno possibile e mai con toni critici.

Last modified: 8 Febbraio 2023

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